La
flessibilità aumenta l'occupazione? Tagliare le spese dello Stato aiuta
l'economia? La competitività valore assoluto? Tutte bugie. Un saggio di Luciano
Gallino illustra le disastrose conseguenze economiche e sociali del
neoliberismo, che ha elevato la disuguaglianza a ideale di sviluppo.
colloquio con Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli
Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio,
prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario
con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e
all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul
tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una
rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto.
Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino "La lotta di classe
dopo la lotta di classe" (intervista a cura di Paola Borgna, editori
Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e
moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi
dell'ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente
intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all'infuori. E
Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili
populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe
esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha
ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli
anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in
un’altra lotta, quella tra poveri.
Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali
(folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà –
diventare una sorta di bibbia laica.
Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo
piemontese.
Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che
l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le
aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di
un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel
libro. È così?
«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della
controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i
lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte
oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla
realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i
sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».
Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto
significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve
durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si
guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi
alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu
la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora
forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del
reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere
sbagliato...
«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli
altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale.
L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra
flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva
perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi
indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità,
semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta
flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia,
Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».
La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che
poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio
non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”.
Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello
sociale. C'è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante
difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?
«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a
sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro”
significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E
poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica,
anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle
dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per
adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti
al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla
partecipazione dei cittadini alla vita politica».
Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una
è sicuramente rimasta, viva e vegeta....
«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in
circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche
neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale
e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”,
“tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più
flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile
decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche
nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano
sistematicamente sconfessate dalla realtà»
È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la
propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo
ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta.
Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l'internazionalismo, cioè la
capacità di fare "gioco di squadra" a livello planetario. Come si fa
a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una visione
alternativa della società?
«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della
pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale.
L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di
persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che
politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la
finanza, ma in modo assolutamente strumentale».
Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a
sinistra, ha ritirato fuori la cosa.
«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario
del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di
lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è
nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di
continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste
nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con
la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»
Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno,
lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una
critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun
sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire
che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di
dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché
quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con
profitto...». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà
di classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il
sindacato? È questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante?
«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività
produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per
parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in
cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello
internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».
Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi
di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo sostenga e ne
subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La
dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.
«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come
dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire
agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di
competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è
sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza:
l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così
qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla
richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un
grigio calcolo elettorale».
Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?
«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come
una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di
interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato
di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria
entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto
questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida,
specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i
Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il
proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema
finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre
diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto
da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».
L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato
alla sinistra. Ho letto il "Manifesto per un soggetto politico
nuovo", e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e
firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte
dei partiti d’area?
«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di
buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e
organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come
vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili
catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».
Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del
socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale
su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante
megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che
dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin
dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la
ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse,
ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo
frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società
intera. E questa è stata una perdita enorme».
Lo sa che le daranno dello stalinista? «È possibile e la cosa mi diverte
anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto
questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che
se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della
maturità politica della nostra classe dirigente».
(4 aprile 2012)
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-nuova-lotta-di-classe-dei-ricchi-contro-i-poveri-intervista-a-luciano-gallino/