Pubblichiamo questo articolo dell'economista francese Maurice Allais (tradotto da Maurizio Blondet, articolo originale 'Il faut protéger le travail contre les délocalisations, par Maurice Allais, prix Nobel d’économie', apparso nel dicembre 2005 sulla rivista francese “Marianne”) su mondializzazione, disoccupazione in Europa e necessità del protezionismo:
Il punto di vista che qui esprimo è quello di un teorico insieme liberale e socialista. I due concetti sono nella mia mente indissociabili, la loro opposizione mi pare false e artificale. L’ideale socialista consiste nell’interessarsi all’equità nella ridistribuzione delle ricchezze, mentre i veri liberali si preoccupano dell’efficacia della produzione della stessa ricchezza. Ai miei occhi, sono due aspetti complementari della stessa dottrina. Ed è precisamente in quanto liberale mi autorizzo a criticare le insistite posizioni ripeture dalle grandi entità sovrannazionali in favore di un libero-scambismo applicato ciecamente.
Il fondamento della crisi: l’organizzazione mondiale del commercio
La recente riunione del G-20 ha di nuovo proclamato la sua denuncia del “protezionismo”, denuncia assurda ogni volta che viene espressa senza sfumatore, com’è nel caso attuale. Siamo davanti a ciò che chiamo “i tabù indiscussi” i cui effetti perversi si rinforzano e si moltiplicano nel corso degli anni. Perchè liberalizzare tutto, come si comincia a verificare, porta ai peggiori disordini. Al contrario, fra le tante verità che vengono taciute si trova il fondamento vero dell’attuale crisi: è l’organizzazione del commercio globale, che bisogna riformare profondamente, e prima ancora dell’altra grande riforma altrettanto indispensabile, quella del sistema bancario.
I grandi dirigenti del pianeta mostrano ancora una volta la loro ignoranza dell’economia, in quanto confondono due generi di protezionismo. Alcuni sono nefasti, mentre altri sono del tutto giustificati. Nella prima categoria si trova il protezionismo fra Paesi con salarii paragonabili, protezionismo non auspicabile. Ma per contro, il protezionismo tra Paesi con livelli di vita molto differenti è non solo lecito, ma assolutamente necessario. E’ il caso della Cina, verso la quale aver soppresso le protezioni doganali alle frontiere è semplicemente folle. Ma lo stesso vale anche verso Paesi più vicini, inclusi alcuni in seno all’Europa. Basta interrogarsi sul modo di lottare contro costi di produzione cinque o dieci volte inferiori per capire che la concorrenza non è sostenibile in questi casi. Specialmente di fronte a concorrenti indiani e cinesi che, oltre al minimo costo della manodopera, hanno competenze e spirito d’intrapresa.
Dato che l’alta disoccupazione attuale è dovuta a questa liberalizzazione totale del commercio, la strada presa dal G-20 è altamente nociva. Essa sarà un fattore di peggioramento della situazione sociale. E’ una scemenza di prima grandezza, che parte da un controsenso incredibile; esattamente come attribuire la crisi del 1929 a cause protezionistiche è un controsenso storico. La sua vera origine fu nello sviluppo sconsiderato del credito negli anni che l’hanno preceduta. Le misure protezionistiche applicate dopo l’arrivo della crisi hanno certamente contribuito a meglio controllarla.
Siamo dunque di fronte ad una ignoranza criminale. Che il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (nel 2005) Pascal Lamy abbia chiesto un’accelerazione delle liberalizzazioni globali mi pare un equivoco monumentale, direi mostruoso. Gli scambi, contrariamente a quel che pensa Lamy, non vanno considerati un fine in sè; non sono altro che un mezzo. Questo individuo, che prima era a Bruxelles come commissario europeo al commercio, non capisce niente, purtroppo. Di fronte a questa ostinazione suicida, avanzo la mia proposta: bisogna delocalizzare Pascal Lamy, una delle cause maggiori della disoccupazione.
Più concretamente, le regole da applicare sono di una semplicità assoluta: la disoccupazione viene dalle delocalizzazioni, a loro volta dovute a troppo grandi differenze salariali. Dunque, ciò che si deve fare risulta evidente di per sè: è necessario stabilire una legittima protezione. Da più di un decennio ho proposto di creare degli insiemi regionali più omogenei, unendo in una zona economica diversi Paesi quando questi presentano le stesse condizioni di reddito e le stesse condizioni sociali. Ognuna di queste “organizzazioni regionali” dovrebbe essere autorizzata a proteggersi ragionevolmente contro le disparità dei costi di produzione che assicurano vantaggi indebiti a certi Paesi concorrenti; ciò, pur mantenendo allo stesso tempo, all’interno di ogni zona, le condizioni di una sana e reale concorrenza tra i suoi membri associati.
Il sistema che propongo non costituirebbe un danno per i Paesi in via di sviluppo. Oggi, le grandi imprese li utilizzano per i loro bassi costi, ma partirebbero se i salari aumentassero troppo. Questi Paesi hanno interesse ad adottare il mio principio e ad unirsi ai loro vicini dotati di un livello di vita simile, per sviluppare anche loro un mercato interno abbastanza ampio da sostenere la loro produzione, ma anche abbastanza equilibrato da far sì che la concorrenza interna non si fondi soltanto sul mantenimento di salari bassi.
Ciò potrebbe applicarsi ad esempio ai Paesi dell’est dell’Unione europea, che sono stati integrati senza riflessione sufficiente, ma anche a quelli dell’Africa e dell’America latina.
L’assenza di tale protezione porterà alla distruzione di ogni attività di ogni Paese con reddito più elevato, ossia di tutte le industrie dell’Europa occidentale e quelle dei Paesi sviluppati. Mi sembra scandaloso che le imprese chiudano dei siti redditizi in Francia o licenzino, mentre ne aprono nelle zone a costi minori (...). Se non è posto alcun limite, possiamo già annunciare ai francesi quanto segue: un aumento drammatico della distruzione di posti di lavoro, della disoccupazione - non soltanto nell’industria, ma anche nell’agricoltura e nei servizi.
Non faccio parte degli economisti che usano il termine “bolla”. Sono d’accordo che ci sono movimenti che si generalizzano, ma la parola “bolla” mi sembra sbagliata per descrivere la disoccupazione prodotta dalle delocalizzazioni. In effetti la sua progressione riveste un carattere permanente e regolare da oltre trent’anni. L’essenziale della disoccupazione che subiamo risulta precisamente da questa liberalizzazione sconsiderata del commercio su scala mondiale, senza preoccuparsi del livello di vita. Non è una bolla, ma un fenomeno di fondo, com’è la liberalizzazione degli scambi.
Crisi e mondializzazione sono legati
I grandi dirigenti mondiali preferiscono riportare tutto alla moneta; ora, questa è solo una parte del problema. Crisi e mondializzazione sono legati. Regolare solo il problema monetario non basterà, non regolerà l’essenziale, che è la nociva liberalizzazione degli scambi internazionali. Il governo attribuisce le conseguenze sociali delle delocalizzazioni a cause monetarie: è un errore folle.
Per quanto mi riguarda, ho combattuto le delocalizzazioni nei miei scritti pubblicati, sicchè il mio messaggio è noto. Mentre i fondatori del mercato comune avevano previsto dei ritardi di diversi anni prima di liberalizzare gli scambi con i nuovi membri accolti nel 1986, in seguito abbiamo aperto l’Europa senza precauzione e senza lasciare delle protezioni esterne di fronte alla concorrenza di Paesi dotati di costi salariali tanto bassi, da rendere illusorio difendersene.
Se il lettore vorrà riprendere le mie analisi sulla disoccupazione, che ho pubblicato nei due decenni passati, constaterà che gli eventi che viviamo oggi sono stati non solamente annunciati, ma descritti nei particolari. E tuttavia, le mie analisi hanno goduto di un’eco sempre più limitata sulla grande stampa. Questo silenzio obbliga a interrogarsi.
Un Nobel telespettatore
I commentatori economici che vedo parlare regolarmente alla TV per analizzare le cause della crisi attuale sono gli stessi che prima venivano ad analizzare la buona congiuntura con perfetta serenità. Non avevano annunciato l’arrivo della crisi, e non propongono niente di serio per uscirne. Ma li si invita ancora ai talk show.
Quanto a me, non sono stato mai invitato in televisione quando annunciavo e scrivevo, oltre dieci anni fa, che si sarebbe prodotta presto una crisi di prima grandezza accompagnata da disoccupazione incontrollata. Faccio parte di coloro che non sono stati ammessi a spiegare ai francesi quali sono le origini reali della crisi, mentre venivano spossessati di ogni potere reale sulla loro moneta, a profitto dei banchieri. In passato ho fatto arrivare a certe trasmissioni sull’economia - alle quali assistevo come telespettatore - che ero disposto ad andarvi a parlare: di cosa? Di quel che sono divenute a poco a poco le banche attuali, del ruolo veramente pericoloso dei traders, e del perchè certe verità nei loro confonti vengono taciute. Nessuna risposta, nemmeno negativa, è mai venuta da alcuna catena televisiva in questi anni.
Questo atteggiamento ripetuto solleva un problema sui grandi media in Francia: certi esperti vi sono autorizzati, altri invece proibiti. Benchè io sia un esperto internazionalmente riconosciuto sulle crisi economiche, specie quelle del 1929 o del 1987, io resto un telespettatore. Un premio Nobel... telespettatore.
Mi trovo di fronte alle affermazioni degli specialisti che sono regolarmente invitati in TV, e che garantiscono di capire bene quel che accade e che cosa bisogna fare. Invece in realtà non capiscono nulla. La loro situazione somiglia a quella che constatai nel 1933 negli Stati Uniti, dove ero andato con lo scopo di studiare la crisi che vi infuriava, coi suoi disoccupati e i suoi senza-tetto. Vi regnava una incomprensione intellettuale totale. C’è chi si inganna doppiamente in quanto ignora la propria ignoranza; ma altri, che conoscono e perciò dissimulano, ingannano i francesi.
Questa ignoranza, e soprattutto la volontà di nasconderla grazie a certi media, dimostrano un imputridimento del dibattito e dell’intelligenza, a causa di interessi particolari legati al denaro. Sono interessi che vogliono che il sistema economico attuale perduri tal quale, in quanto funziona a loro vantaggio. Tra questi interessi si trovano le multinazionali che sono i principali beneficiari, con gli ambienti borsistici e bancari, di un meccanismo economico che li arricchisce nel momento stesso in cui impoverisce la maggioranza della popolazione, francese ma anche mondiale.
Ciò pone la domanda: quanto sono veramente liberi i grandi media? Parlo della loro libertà riguardo al mondo della finanza e alle sfere della politica. Seconda domanda: chi detiene il potere di decidere che un esperto è autorizzato o non autorizzato ad esprimere un libero commento sulla stampa? Ultima domanda: perchè le cause di tale crisi sono presentate ai francesi da queste personalità che non comprendono profondamente la realtà economica? Si tratta di ignoranza da parte loro? Quelli che detengono il potere di decisione ci lasciano la scelta tra ascoltare degli ignoranti o degli ingannatori.
Maurice Allais